Chiunque sia sopravvissuto alla sua infanzia», diceva Flannery O’
Connor, grande narratrice nordamericana del sud, «ha di che scrivere un
romanzo«. Era cattolica, appassionatamente credente, eppure lo vedeva,
il male annidato nelle relazioni famigliari. La contiguità coatta, la
reciproca dipendenza... e quel vedersi da vicino, tutti i giorni, che
impedisce di illudersi sulle perfezioni dell’altro. La famiglia, spesso,
è il luogo fisico della massima sciatteria relazionale: non ti trucchi e
non ti vesti e non cerchi la luce migliore, per cenare con tuo marito.
Non ascolti e non parli con i tuoi figli come parli e ascolti un’amica.
Non metti in atto strategie seduttive, non dai il meglio di te. Il fatto
che i genitori non te li sei scelti, che «ti sono capitati», spinge
spesso i giovani a considerare quelli famigliari come rapporti gratuiti,
per i quali non c’è bisogno di sforzarsi, di ricambiare favori o di
provare gratitudine. Il fatto che i figli sono «tuoi» spinge spesso gli
adulti a privilegiarli acriticamente, a esaltarli, a negare difetti e
problemi per fare bella figura. Potrei continuare. Il primo gesto
politico della mia vita è stato, nel mio liceo occupato, nel 1968, un
seminario dal titolo «contro la famiglia». Niente di personale, ma l’ho
sempre considerata un «luogo a rischio». Anche in assenza di patologie.
Negli ultimi anni, poi, la faticosa normalità cede spesso alla violenza.
Dicono che succedeva anche prima, ma adesso se ne parla. Se ne parla,
infatti, ma quando è troppo tardi. Quando uomini spaventati
dall’affermarsi della libertà femminile usano pugni, calci, coltelli e
fucili contro le donne che non li vogliono più. Quando padri, fratelli,
mariti esercitano sul corpo di figlie, sorelle, mogli un diritto che non
esiste: prendersi un piacere non reciproco. Bisogna guardarci dentro,
alla famiglia. Scoprire che cosa contiene. Quali affetti, quali
malattie. Senza retorica.
credo che dovrei farlo anch'io...